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”Aglio, menta e basilico” di Jean-Claude Izzo è un libro semplice, caldo e fragrante come il pane.

Un elogio appassionato del Mediterraneo (il “mare bianco di mezzo” come lo chiamano gli arabi), dei suoi sapori (l’aglio, la menta e il basilico, appunto) e, soprattutto, delle sue città: da Tangeri a Napoli, da Barcellona a Genova, da Alessandria a Istanbul. In una sua personale “geografia delle felicità possibili” Izzo dichiara il suo amore sviscerato per queste città mediterranee: “E ognuna di queste città, con le sue stradine strette, tortuose, pullulanti di gente, mi ha offerto i suoi colori, i suoi frutti, i suoi fiori, i gesti dei suoi uomini e lo sguardo delle sue donne”. Ma è Marsiglia, città natale di Izzo, il luogo più amato. Marsiglia “bastarda”, volgare, selvaggia, accattivante come una zingara dallo sguardo fiero e sfacciato. Marsiglia è una donna che ride forte e che si trucca troppo, è una puttana dei vicoli. Ma sta proprio in questa esagerazione il suo fascino più profondo: “Marsiglia esagera, sempre. È la sua essenza”. Spudorata ma accogliente, Marsiglia “si dà senza opporre resistenza a chi sa prenderla, amarla” a quegli uomini perduti, figli dell’esilio che qui hanno trovato casa. Hommes perdus d’autres ports, qui portez avec vous la conscience du monde…

Il libro di Izzo non è però solamente un poetico canto d’amore per il Mediterraneo, esso delinea anche una visione politica dell’ “esperienza mediterranea”, intesa come espressione di una nuova cultura aperta, meticcia, creola che si oppone al pensiero omologante e separatista del Nord (della Banca mondiale e dei capitali privati internazionali): “ Sì, guardando il mare credo che se c’è un futuro per l’Europa, un futuro bello, è in ciò che Edouard Glissant chiama ‘creolità mediterranea’”.  Izzo, al “pensiero atlantico” dominante, contrappone così un’ “alternativa mediterranea”, per la quale il “mare di mezzo” possa tornare ad essere uno spazio aperto, fluido, un ponte, un legame. Il libro di Izzo tocca così alcune tematiche di stridente attualità: viviamo infatti in un epoca “atlantica”, dominata da un capitalismo sfrenato, in cui anche il tollerante Mediterraneo sta diventando sempre più un muro tra Europa e mondo arabo, tra Oriente e Occidente e un cimitero per milioni di migranti, per quei “dannati della terra” che bussano alle porte di una Fortezza Europa sempre più impaurita e ripiegata nella sua arrogante ma fragile solitudine. In tal senso il messaggio di apertura dello scrittore francese si configura come una vera e propria boccata d’aria,  rinnovando la speranza che il Mediterraneo possa diventare un “appello alla riconciliazione”, uno spazio di connessione e di incontro.

“Lì con lo sguardo perso, innamorato, ricordo che mi sono detto che non c’è niente di più bello, di più significativo, per chi ama con lo stesso amore l’Africa e il Mediterraneo, che contemplare la loro unione in questo mare”


In questi ultimi anni ho vissuto in sette città diverse. Sette vite. Una quantità indefinita di valigie, zaini, trolley trascinati faticosamente tra aeroporti, stazioni, metrò. E in ogni viaggio, ad ogni partenza, un miscuglio di sensazioni potenti e contraddittorie: l’eccitazione per la novità, il senso di libertà e di avventura si accompagnano sempre ad un’angoscia, sottile ma implacabile, che fodera lo stomaco e che fa venir voglia di annullare tutto, di restarsene a casa tra abitudini, persone e cose conosciute e rassicuranti. E in questi giorni, alle prese con l’ennesima partenza, sono di nuovo da capo: sballottata in un mare in tempesta di sensazioni, pensieri, gioie e ansie, mi domando come mai ancora non sono riuscita a “fare il callo” a questo senso di incertezza e di inadeguatezza che mi attanaglia ogni volta che varco la soglia di casa. Immersa in queste riflessioni mi sono rifugiata in libreria (come sempre quando sono un pò turbata, triste o nervosa), e curiosando tra gli scaffali, ho scovato, sovrastato e nascosto da tomi ben più voluminosi, un piccolo e “timido” libro di Andrea Semplici, “In viaggio con Kapuscinski. Dialogo sull’arte di partire”. Il libricino si presenta come una sorta di nota a margine di ” In viaggio con Erodoto” di Ryszard Kapuscinski (di cui ho già parlato in qualche post precedente), ma è soprattutto una riflessione breve e folgorante sull’arte del viaggio e del partire. Le prime pagine in particolare mi hanno regalato brividi di piacere: sembrano scritte apposta per me, danno forma, come un abito fatto su misura, alle sensazioni che ho cercato di descrivervi. E ancora una volta, con meraviglia, ho dovuto constatare come i libri, oggetti apparentemente inerti e muti, hanno il potere di dare vita a inaudite risonanze e invisibili corrispondenze, alleggerendo il peso della nostra inevitabile solitudine.

“Il primo gesto di ogni vero viaggio ha qualcosa di lento. Non credete a chi si mostra deciso, privo di dubbi e incertezze. Nasconde sensazioni incomprensibili e contraddittorie. Lui stesso non vuole crederci: ha sognato e desiderato per mesi questo momento e ora come è possibile che non voglia più partire? E’ qualcosa di inspiegabile. Nasconde, dietro il sorriso, una stanchezza improvvisa, un indefinibile senso di solitudine. Nella sua testa stanno passando, come cavalli a galoppo, mille saggie ragioni che suggeriscono di non andare. La partenza è un momento di fine e di inizio. E’ necessario, crdetemi, trovare coraggio. Occore coraggio nel cancellare ogni dubbio e affrontare quel ‘momento di fare spazio al proprio sogno-bisogno’. E ne occorre tanto per sciogliere gli ormeggi e mollare la cima che ci tiene legati alla banchina. ‘Fa’ salpare il tuo sogno, ficcaci dentro la tua scarpa’, dice il poeta romeno Paul Celan.Non sempre è facile.”

Andrea Semplici, In viaggio con Kapuscinski. Dialogo sull’arte di partire

“Ho scoperto prestissimo che i migliori compagni di viaggio sono i libri: parlano quando si ha bisogno, tacciono quando si vuole silenzio. Fanno compagnia senza essere invadenti. Danno moltissimo senza chiedere nulla.” Questa bella frase di Tiziano Terzani basterebbe a descrivere, con brevità ed efficacia, “In viaggio con Erodoto” di Ryszard Kapuscinski. In questo testo un po’ insolito, infatti, i famosi reportage del giornalista polacco si intrecciano con le “Storie” di Erodoto, in un incessante andirivieni tra il “qui” e il “là” (in una prospettiva sia geografica che storica), un continuo “varcare le frontiere” del tempo e dello spazio tra il mondo dell’Antica Grecia e il XX° secolo.  Per Kapuscinki il capolavoro dello scrittore greco rappresenta un vero e proprio livre de chevet, un testo da leggere e rileggere, da interpretare e interrogare perché  “il libro del greco, come ogni opera veramente grande, va letto e riletto, scoprendo a ogni lettura nuovi contenuti, immagini e significati. Ogni grande libro ne contiene a sua volta degli altri, ognuno dei quali va approfondito e capito”. Ed è proprio per questo che in ogni suo viaggio, dalla Cina all’India, dal Senegal all’Iran, dal Sudan all’Algeria, Kapuscinski porta con sé il libro, compagno di viaggio silenzioso ma prezioso, e come in una sorta di rito inconscio, in ogni posto in cui si trova, lo apre e ne legge qualche pagina alla ricerca di corrispondenze tra ciò che descrive Erodoto e quello che il reporter polacco vede scorrere davanti ai propri occhi. Le “Storie” diventano così il fil rouge degli innumerevoli viaggi di Kapuscinski, una chiave d’accesso per comprendere il microcosmo delle passioni umane e il macrocosmo delle vicende storiche ed Erodoto, nonostante i secoli che li separano, si rivela per il grande giornalista polacco uno spirito affine, un’anima gemella, un individuo mosso proprio come lui “dalla curiosità del mondo, dal desiderio di esserci, di vedere e sperimentare in prima persona” e che “solo in viaggio [..] si sente se stesso e a casa propria”.  Erodoto, già considerato da molti come un storico ed un antropologo ante litteram, diventa così per Kapuscinski il primo grande reporter della storia, fonte di ispirazione e di confronto.

Il testo di Kapuscinki è un inno appassionato al viaggio e al libro e, soprattutto, alla loro viscerale compenetrazione: viaggiare e leggere sono due universi di esperienza che si intrecciano fecondamente, prolungandosi l’uno nell’altro. E a una come me che prima di partire per un viaggio (ma anche solamente per uscire di casa) si preoccupa sempre di mettere un libro in borsa o in valigia per neutralizzare l’imbarazzo della solitudine e il senso di estraneità, questo libro non poteva che risultare ricco di profonde e affascinanti risonanze.

Ho da poco finito di leggere un piccolo libro suggestivo (già citato in qualche posto precedente): “Quando cadono i muri” (edito da Nottetempo) di Edouard Glissant e Patrick Chaimoiseau, due scrittori martinicani, eredi di Aimé Cesaire e teorici della creolità. Il libretto si configura come una riflessione breve ma densa sul tema dell’identità. I due autori individuano e analizzano due tipi di identità: l’“identità a radice unica” (l’identità-muro) e l’”identità relazionale”. La prima caratterizza lo Stato-nazione: è un’identità “forte”, dotata di confini precisi. La seconda si basa su una concezione dinamica secondo la quale ogni identità collettiva è aperta e si deve rapportare con il mondo, con l’altro. Nel Tutto-Mondo (concetto “aperto” che gli autori contrappongono al concetto “chiuso” di Stato-nazione) nessuna cultura, nessuna civiltà raggiunge la pienezza di sé se non entra in relazione con le altre, in un incontro di immaginari liberi e diversi che si fecondano reciprocamente. In base a questo distinzione, Glissant e Chaomoiseau riflettono poi su alcuni temi di attualità: a tal proposito due sono i punti degni di nota. Primo: gli autori evidenziano il carattere “economico”, più che culturale, di molti muri contemporanei: “I muri che si costruiscono oggi (con il pretesto del terrorismo, dell’immigrazione selvaggia o del dio migliore) non si innalzano tra civiltà, culture e identità, ma tra povertà e sovrabbondanza, tra ebbre ma inquiete e opulenze e sterili asfissie”. Secondo: gli autori muovono una critica radicale nei confronti del Ministero dell’Immigrazione, dell’Integrazione e dell’Identità (istituito dal  presidente francese Nicolas Sarkozy), contro il quale hanno anche redatto un appello per denunciarne l’assurdità e l’inconsistenza.

La riflessione dei due scrittori caraibici  si inscrive quindi all’interno del pensiero postmoderno (e postcoloniale)  che esalta le identità “deboli, creole e meticcie. Glissant e Chaimoiseau però, per fare questo, hanno optato per uno stile poetico più che saggistico, uno stile ricco di venature evocative e parole pregnanti. Ed è proprio tale aspetto, a mio avviso, a rendere la lettura di questo volumetto particolarmente godibile.

L’appello contro il Ministero francese dell’Immigrazione, dell’Integrazione, dell’Identità:

I muri minacciano tutto il mondo, dall’uno e dall’altro lato della loro oscurità. Finiscono per inaridire ciò che si è già disseccato sul versante della miseria, finiscono per inasprire le reazioni d’ansia che si manifestano sull’altro versante, quello dell’abbondanza. La relazione con l’altro (con qualunque altro, nelle sue presenze animali, vegetali, culturali e, di conseguenza, umane) ci indica la parte più alta, più rispettabile, più feconda di noi stessi. Che cadano i muri.

Noi chiediamo che tutte le forze umane d’Africa, d’Asia, d’Europa, delle Americhe, che tutti i popoli senza Stati, tutti i “repubblicani”, tutti i sostenitori dei “diritti dell’uomo”, gli abitanti dei paesi più piccoli, gli isolani e gli erranti degli arcipelaghi, così come coloro che percorrono i continenti, chiediamo che tutti gli artisti, gli uomini e le donne colti e quelli che trasmettono il sapere, che tutte le autorità al servizio dei cittadini o quelle di buona volontà, che coloro che modellano e creano, levino, in tutte le forme possibili, una protesta contro questo muro-Ministero che cerca di farci adattare al peggio, di abituarci poco a poco all’insopportabile, di portarci a frequentare, in silenzio e fino al rischio della complicità, l’inammissibile.

Tutto il contrario della bellezza.

Sto leggendo “L’ identità etnica: storia e critica di un concetto equivoco”, un bel libro dell’antropologo Ugo Fabietti. Il saggio si configura come una sorta di viaggio all’interno del concetto di “etnia”, nozione che viene prima spiegata e ricostruita in una geneaologia rigorosa, e poi criticata e “decostruita” con gli strumenti dell’antropologia culturale (della “ragione antropologica”, come direbbe l’autore).  Seguendo questo itinerario di pensiero, Fabietti arriva a negare l’esistenza dell'”etnia” come “realtà empirica”, come “dato naturale”. L’etnia, secondo la tesi dell’autore,  è una “finzione”, una costruzione simbolica prodotta da determinate circostanze storiche, politiche e sociali. L’etnia è un’ invenzione, frutto di un processo di “esagerazione” della differenza culturale (un eccesso di cultura, direbbe Marco Aime) e di “estrazione” di alcuni dati da un continuum socio-culturale indistinto e sincretico. Seguendo il filo di queste riflessioni, Fabietti si sofferma sul concetto di “autenticità”. La domanda che l’antropologo si pone (e ci pone) è la seguente: “Esistono (o sono esistite) culture pure, incontaminate, autentiche?” La risposta di Fabietti (e di buona parte dell’antropologia contemporanea) è decisamente no. Non ci sono culture pure. E , molto probabilmente, non ci sono nemmeno mai state. Le culture sono da sempre il risultato di incontri, scontri, contaminazioni. Le culture sono, per loro natura, impure,  contaminate, “bastarde”.

In quest’ottica la parodia del “buon cittadino americano”, che Ralph Linton faceva leggere ai suoi studenti nel corso della prima lezione di antropologia (post precedente), ci introduce, con un stile ironico e provocatorio, a riflessioni fondamentali dell’antropologia contemporanea, che proprio attraverso questo lavoro di decostruzione di discorsi diffusi e comuni, di idee preconcette e stereotipate, “scuote” la nostra mente, mette in discussione nozioni date per scontate, svelando così il suo apporto “radicale” e critico al pensiero contemporaneo.

In  quest’ottica decostruzionista, Fabietti, ispirandosi proprio a Linton, scrive:

“Una delle molteplici ironie che segnano la storia delle relazioni europee con il resto del mondo è – ha scritto Bernand Cohn- che molti di quelli che noi riteniamo esseri degli indicatori di autenticità degli aborigeni nordamericani furono creati dal contatto con gli europei. I pali totemici che adornano i parchi delle città della costa canadese del Pacifico furono scolpiti grazie all’uso di asce metalliche; la società degli “indiani delle praterie” non sarebbe mai esistita, così come l’abbiamo conosciuta, senza il cavallo introdotto dagli spagnoli, così come le coperte e i gioielli dei navajo non avrebbero mai potuto essere confezionati senza le pecore e gli utensili portati dai conquistadores, né potrebbero essere oggi ancora fabbricati per la delizia dei turisti alla ricerca dei prodotti “autentici” dell’artigianato indiano. Appaiono così in una luce più “seria” le spiritose e ironiche osservazioni di  Linton sull’ idea che di se stesso ha il “buon cittadino medio”.

Ho da poco finito di leggere un piccolo libro suggestivo (già citato in qualche post precedente): “Quando cadono i muri” (edito da Nottetempo) di Patrick Chamoiseau e Edouard Glissant, i due più importanti scrittori martinicani, eredi di Aimé Cesaire e teorici della creolità. Il libretto è una riflessione breve ma densa sul tema dell’identità. I due autori individuano e analizzano due tipi di identità: l'”identità a radice unica” (l’identità-muro) e l'”identità relazionale“. La prima caratterizza lo Stato-nazione: è un’identità “forte”, dotata di confini precisi. La seconda invece fa leva su una concezione dinamica secondo la quale ogni identità collettiva è aperta, si deve continuamente rapportare con il mondo, con l’altro. Nel Tutto-mondo (concetto “aperto” che gli autori oppongono al concetto “chiuso” di Stato-nazione) nessuna cultura, nessuna civiltà raggiunge la pienezza se non entra in relazione con le altre, in un incontro di immaginari diversi che si fecondano reciprocamente. Non esiste identità senza alterità, dunque. In base a questa distinzione Glissant e Chaimoseau riflettono, poi, su alcuni temi di attualità: due punti, a mio parere, sono degni di nota. Primo:  gli autori mettono in evidenza il carattere “economico”, più che culturale, di molti muri contemporanei: “I muri che si costruiscono oggi (con il pretesto del terrorismo, dell’immigrazione selvaggia o del dio migliore) non si innalzano tra civiltà, cultre o identità, ma tra povertà e sovrabbondanza, tra ebbre e inquiete opulenze e sterili asfissie“. Secondo: gli autori muovono una critica radicale nei confronti del Ministero dell’Immigrazione, dell’Integrazione e dell’Identità istituito dal presidente francese Nicolas Sarkozy, contro cui hanno anche redatto un appello per denunciarne l’assurdità e l’inconsistenza.

La riflessione dei due autori caraibici si inscrive quindi nel pensiero postmoderno (e postcoloniale) che esalta le identità “deboli”, creole, meticce. Glissant e Chaimoseau però, per fare questo, hanno optato per un stile poetico più che saggistico, uno stile ricco di venature evocative e parole pregnanti. Ed è proprio tale aspetto, a mio parere, a rendere la lettura di questo volumetto particolarmente godibile.

L’appello contro il Ministero francese dell’Immigrazione, dell’Integrazione e dell’Identità:

I muri minacciano tutto il mondo, dall’uno e dall’altro lato della loro oscurità. Finiscono per inaridire ciò che si è già dissecato su versante della miseria, finiscono per inasprire le reazioni d’ansia che si manifestano sull’altro versante, quello dell’abbondanza. La relazione con l’altro (con qualunque altro, nelle sue presenze umane, vegetali, cullturali e, di conseguenza, umane) ci indica la parte più alta, più rispettabile, più feconda di noi stessi. Che cadano i muri.

Noi chiediamo che tutte le forze umane d’Africa, d’Asia, d’Europa, delle Americhe, che tutti i popoli senza Stati, tutti i “repubblicani”, tutti i sostenitori dei “diritti dell’uomo”, gli abitanti dei paesi più piccoli, gli isolani e gli erranti degi arcipelaghi, così come coloro che percorrono i continenti, chiediamo che tutti gli artisti, gli uomini e le donne colti e quelli che tramettono il sapere, che tutte le autorità al servizio dei cittadini o quelle di buona volontà, che coloro che modellano e creano, levino, in tutte le forme possibili, una protesta contro questo muro-Ministero che cerca di farci adattare al peggio, di abituarci poco a poco a l’insopportabile, di portarci a frequentare, in silenzio e fino al rischio della compicità, l’inammissibile.

Tutto il contrario della bellezza.

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26 anni, lettrice accanita, studentessa vagabonda, aspirante antropologa, o in alternativa, allevatrice di asini

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Quache anno fa lo scrittore tedesco Peter Schneider affermava che, nonostante la caduta del muro, la gente di Berlino continuava ad avere “il muro in testa”. La barriera reale, fatta di cemento e sabbia, era stata abbattuta ma la linea di separazione tra "noi" e "loro", tra Est e Ovest restava ancora lì, presente e viva, nella mente dei berlinesi. Ovviamente gli abitanti della capitale tedesca non erano e non sono i soli ad avere un muro in testa. Tutti inevitabilmente ne abbiamo uno, inconsistente, immateriale ma estremamente solido: è quell’insieme di idee, stereotipi, pre-giudizi, classificazioni, attraverso il quale tracciamo confini, barriere, decidiamo chi è il diverso, lo straniero, l’altro. Lo scopo del blog è quindi quello di condividere il mio personale e imperfetto sforzo, non certo di abbattere questo muro, pretesa eccessiva e illusoria, ma perlomeno di aprire una breccia, scavare tra i mattoni alla ricerca di fessure che permettano di lanciare uno sguardo a ciò che c’è dall’altra parte, a ciò che per abitudine o indifferenza, tendiamo ad escludere dal nostro orizzonte di intelligibilità, di senso, di vita.

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"Ogni posto è una miniera. Basta lasciarcisi andare, darsi tempo, stare seduti in una casa da tè ad osservare la gente che passa, mettersi in un angolo del mercato, andare a farsi i capelli e poi seguire il bandolo di una matassa che può cominciare con una parola, con un incontro, con l'amico di un amico di una persona che si è appena incontrata e il posto più scialbo, più insignificante della terra diventa uno specchio del mondo, una finestra sulla vita, un teatro di umanità dinanzi al quale ci si potrebbe fermare senza più il bisogno di andare altrove. La miniera è esattamente là dove si è: basta scavare." Tiziano Terzani

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