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“Un viaggio non inizia nel momento in cui partiamo né finisce nel momento in cui raggiungiamo la meta. In realtà comincia molto prima e non finisce mai, dato che il nastro dei ricordi continua a scorrerci dentro anche dopo che ci siamo fermati. È il virus del viaggio, malattia sostanzialmente incurabile.”

Ryszard Kapuscinski, In viaggio con Erodoto

 

Vado in Marocco..alla prossima settimana!=)

Questo diario non vuole essere un resoconto dettagliato di un viaggio, ma vuole farvi partecipi dello spirito di un luogo. Tiziano Terzani scriveva che “Ogni posto è una miniera. Basta lasciarcisi andare, darsi tempo, stare seduti in una casa da tè ad osservare la gente che passa [..] e poi seguire il bandolo di una matassa e il posto più scialbo, più insignificante della terra diventa uno specchio del mondo, una finestra sulla vita, un teatro di umanità dinanzi al quale ci si potrebbe fermare senza più il bisogno di andare altrove”. Nel mio viaggio in Marocco di qualche mese fa ho trovato la mia “miniera” nel Café Hafa di Tangeri. Hafa in arabo significa limite, confine e il nome non potrebbe essere più azzeccato per questo caffè inerpicato su un promontorio che si affaccia sulla Baia di Tangeri, e dal quale si vedono nitidamente le luci della Spagna, che dista solo 14 chilometri dalla costa marocchina. Il Café Hafa sembra, quindi, essere un luogo sospeso tra due mondi, tra cielo e mare, tra Atlantico e Mediterraneo, tra l’Africa, terra amata quanto amara, e quell’Europa così desiderata, sognata, vicina- sembra quasi di poterla toccare- ma, allo stesso tempo, così distante, inaccessibile. Il caffè è totalmente all’aperto, con le pareti bianche e azzurre tipiche del Nord del Marocco e dispone di diverse terrazze situate ad altezze diverse. Vedendolo da lontano, dal mare, probabilmente assomiglia ad un anfiteatro con i diversi piani incastonati nella roccia. Anche all’interno si respira un’ “atmosfera teatrale”…sembra di salire su un palcoscenico in cui i clienti seduti ai tavolini sono attori inconsapevoli: le famiglie che si ritrovano per godersi lo spettacolo del tramonto e il fresco della sera, le ragazze in jeans e velo colorato che si sussurrano confidenze, i ragazzi che giocano al parchis, un gioco di dadi spagnolo, le coppie che si scambiano carezze furtive. Persino i gatti, numerosissimi, sembrano avere un ruolo in questa grande commedia come spettatori silenziosi e discreti. Ma il Café Hafa è anche e soprattutto “un osservatorio dei sogni e delle loro conseguenze”, come l’ha definito il grande scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun: i giovani del luogo, spesso laureati e disoccupati (i cosiddetti diplomés-chomeurs), infatti, vengono qui a “guardare l’Europa”, che comincia di fronte a loro, e a sognare una vita diversa e un futuro migliore, che quasi sempre si traduce nella smania di partire, di lasciare il proprio paese, di andare dall’altra parte. Il caffè diventa allora la dimora privilegiata di tali sogni che qui si intrecciano e evaporano verso l’alto come il fumo denso che esce dalle pipe del kif.

Il Cafè Hafa è insomma un vero e proprio teatro di umanità, un luogo dell’anima (non a caso era caro ai poeti della beat generation e agli scrittori Paul Bowles e Jean Genet) e inoltre rappresenta una piccola finestra sul Marocco: stare seduti qualche ora ad uno dei suoi tavolini blu, infatti, permette di cogliere un’immagine molto più complessa, sfaccettata e “vera” di questo splendido paese. Al Café Hafa non si incontra il Marocco “da cartolina”, quello, per intenderci, dei souk colorati, delle medine tortuose, delle spiagge chilometriche e dei deserti infiniti, ma si qui si trova un Marocco più “quotidiano”, intessuto dei sogni, delle chiacchiere e dei gesti della gente comune. A volte, piuttosto che imbarcarsi in tour turistici fast food, superficiali e frenetici, piuttosto che collezionare luoghi come fossero farfalle, forse sarebbe meglio viaggiare con più calma, fermarsi, osservare, trovare una “miniera” e “scavare”. In questo atteggiamento, a mio avviso, si trova il senso più profondo del viaggio.

ps: ho scritto questo diario di viaggio qualche mese per partecipare ad un concorso del Corriere della Sera: non ho vinto, ma ho pensato di pubblicarlo comunque sul blog e inaugurare una serie di post-diari di viaggio che ho in mente di scrivere nei prossimi mesi..vediamo un pò che cosa ne esce!=)

about me

26 anni, lettrice accanita, studentessa vagabonda, aspirante antropologa, o in alternativa, allevatrice di asini

ABOUT THE BLOG

Quache anno fa lo scrittore tedesco Peter Schneider affermava che, nonostante la caduta del muro, la gente di Berlino continuava ad avere “il muro in testa”. La barriera reale, fatta di cemento e sabbia, era stata abbattuta ma la linea di separazione tra "noi" e "loro", tra Est e Ovest restava ancora lì, presente e viva, nella mente dei berlinesi. Ovviamente gli abitanti della capitale tedesca non erano e non sono i soli ad avere un muro in testa. Tutti inevitabilmente ne abbiamo uno, inconsistente, immateriale ma estremamente solido: è quell’insieme di idee, stereotipi, pre-giudizi, classificazioni, attraverso il quale tracciamo confini, barriere, decidiamo chi è il diverso, lo straniero, l’altro. Lo scopo del blog è quindi quello di condividere il mio personale e imperfetto sforzo, non certo di abbattere questo muro, pretesa eccessiva e illusoria, ma perlomeno di aprire una breccia, scavare tra i mattoni alla ricerca di fessure che permettano di lanciare uno sguardo a ciò che c’è dall’altra parte, a ciò che per abitudine o indifferenza, tendiamo ad escludere dal nostro orizzonte di intelligibilità, di senso, di vita.

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"Ogni posto è una miniera. Basta lasciarcisi andare, darsi tempo, stare seduti in una casa da tè ad osservare la gente che passa, mettersi in un angolo del mercato, andare a farsi i capelli e poi seguire il bandolo di una matassa che può cominciare con una parola, con un incontro, con l'amico di un amico di una persona che si è appena incontrata e il posto più scialbo, più insignificante della terra diventa uno specchio del mondo, una finestra sulla vita, un teatro di umanità dinanzi al quale ci si potrebbe fermare senza più il bisogno di andare altrove. La miniera è esattamente là dove si è: basta scavare." Tiziano Terzani

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