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La prima volta che ho letto una poesia di Wislawa Szymborska mi trovavo in una delle mense universitarie di Siena. In fila, aspettando il mio turno con il vassoio in mano, presi un volantino appoggiato al bancone: se non ricordo male vi si pubblicizzava una scuola di danza ma ciò che catturò il mio sguardo non fu tanto la descrizione dei corsi offerti quanto una poesia che sembrava messa lì quasi per caso, avendo poco a che fare con l’intento promozionale del volantino. Questa poesia, di cui mi sono immediatamente innamorata, era “Figli dell’epoca”, un componimento in cui la poetessa dal cognome impronunciabile riesce, con parole essenziali e acuminate come diamanti, a dare vita al respiro di un’epoca, della nostra epoca. E ogni volta che mi trovo di fronte a una poesia di simile intensità e lucidità non posso fare altro che pensare alle parole della filosofa spagnola Maria Zambrano quando scrive che il poeta è un testimone fondamentale del nostro tempo: è colui che vive sentendo “nella propria carne l’ustione del mondo”, è colui che con toni “caravaggeschi”, “visivi e insieme visionari ” riesce a svelare il nostro esserci nel mondo.
Ancora mi chiedo chi abbia avuto l’idea di inserire un testo così impegnativo in un volantino pubblicitario. In ogni caso lo ringrazio. =)
Siamo figli dell’epoca,
l’epoca è politica
Tutte le tue, nostre, vostre
faccende diurne, notturne
sono faccende politiche.
Che ti piaccia o no,
i tuoi geni hanno un passato politico,
la tua pelle una sfumatura politica,
i tuoi occhi un aspetto politico.
Ciò di cui parli ha una risonanza,
ciò di cui taci ha una valenza
in un modo o in un altro politica
Perfino per campi, boschi
fai passi politici
su uno sfondo politico.
Anche le poesie apolitiche sono politiche,
e in altro brilla la luna,
cosa non più lunare.
Essere o non essere, questo è il problema.
Quale problema, rispondi sul tema.
Problema politico.
Non de vi neppure essere una creatura umana
per acquistare un significato politico.
Basta che tu sia petrolio,
mangime arricchito o materiale riciclabile.
O anche il tavolo delle trattative, sulla cui forma
si è disputato per mesi:
se negoziare sulla vita e la morte
intorno a uno rotondo o quadrato.
Intanto la gente moriva,
gli animali crepavano,
le case bruciavano
e i campi inselvatichivano
come in epoche remote
e meno politiche
Wislava Szymborska
Ci viene continuamente ricordato che, per inserirsi con successo in una qualsivoglia carriera professionale, è necessario esibire un curriculum vitae efficace, conciso e arricchito da soggiorni all’estero, stages, summer schools. Ed è anche per questo che ho sempre attribuito grande importanza al mio cv. Ho passato ore a leggerlo e rileggerlo preoccupandomi di tradurlo in varie lingue e di compilarlo nella forma più accattivante possibile evidenziando le varie esperienze all’estero, il voto di laurea, i corsi estivi etc etc..
Negli ultimi tempi, però, ho iniziato a chiedermi quanto ci fosse di mio in quelle quattro pagine che compongono il cv: nella sfilza di date, esperienze accademiche, voti, non c’è traccia alcuna delle persone che mi hanno amata e che mi amano, della piega “strana” che prende la mia bocca quando sorrido, dell’espressione dei miei occhi quando piango, del suono della mia risata, delle mie manie, delle mie angosce, delle mie gioie…insomma non c’è traccia di tutto ciò che fa di me..me!
E questo appare piuttosto paradossale soprattutto se si considera che, secondo l’etimologia latina originale, l’espressione curriculum vitae significa letteralmente “corso della vita”, dove curriculum può essere tradotto con “corso”, ma anche con “strada” o “cocchio, ovvero mezzo su cui intraprendere un viaggio”.
Nella sua pregnanza semantica originaria, quindi, il curriculum vitae sta ad indicare l’itinerario, il percorso, il viaggio, ma oggi con questa espressione non si intende altro che una sintesi asettica e ordinata di date e titoli che, paradossalmente, sembra essere il contrario di tutto ciò che è la vita, disordinata, scomposta, imprevedibile. E proprio mentre stavo riflettendo su quest’antitesi vita/curriculum vitae ho “incontrato” per caso una poesia, ironica ed amara, di Wislawa Szymborska che tratta proprio di questo argomento e, cosa ancora più curiosa, nel blog (http://giovannacosenza.wordpress.com/2008/01/23/come-si-scrive-un-curriculum/) in cui la poesia è pubblicata vi è anche un commento, che mi permetto di riportare qui, di una ragazza che in poche righe ha espresso perfettamente la sensazione che ho provato dopo aver letto la poesia e che tra l’altro, per quei casi strani della vita, porta il mio stesso nome, Alessandra:
“Leggendo questi versi è facile immaginare la frustrazione di chi, come me, ha sempre fatto di tutto per arricchire il proprio curriculum. Voto di laurea, corsi di lingua, esperienze all’estero, stage prestigiosi…nella speranza che qualcuno ne tenesse conto, che qualcuno un giorno guardasse il mio cv e dicesse “però, questa ragazza”. Poi è arrivata Wislawa, che mi ha insegnato che quello che conta, alla fine, è vivere. Grazie a questa poesia ho deciso di cambiare prospettiva: le cose si fanno innanzitutto per se stessi, poi se accidentalmente finiscono su un curriculum ben venga. Ma non deve essere quello l’unico scopo.”
Ed ecco il bellissimo componimento della poetessa polacca Wislawa Szymborska:
Scrivere un curriculum
Che cos’è necessario?
È necessario scrivere una domanda,
e alla domanda allegare il curriculum.
A prescindere da quanto si è vissuto
è bene che il curriculum sia breve.
È d’obbligo concisione e selezione dei fatti.
Cambiare paesaggi in indirizzi
e malcerti ricordi in date fisse.
Di tutti gli amori basta quello coniugale,
e dei bambini solo quelli nati.
Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu.
I viaggi solo se all’estero.
L’appartenenza a un che, ma senza perché.
Onorificenze senza motivazione.
Scrivi come se non parlassi mai con te stesso
e ti evitassi.
Sorvola su cani, gatti e uccelli,
cianfrusaglie del passato, amici e sogni.
Meglio il prezzo che il valore
e il titolo che il contenuto.
Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui per cui ti scambiano.
Aggiungi una foto con l’orecchio in vista.
È la sua forma che conta, non ciò che sente.
Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta.
GIROVAGO
di Giuseppe Ungaretti
In nessuna
parte
di terra
mi posso
accasare
A ogni
nuovo
clima
che incontro
mi trovo
languente
che
una volta
già gli ero stato
assuefatto
E me ne stacco sempre
straniero
Nascendo
tornato da epoche troppo
vissute
Godere un solo
minuto di vita
iniziale
Cerco un paese
innocente
Vorrei segnalare un’ iniziativa interessante del Corriere della Sera: il blog “Nuovi Italiani” di Alessandra Coppola.
“Donne, uomini, cammini, sguardi, parole, culture. Chiamatelo melting pot, mixité o mestizaje, in attesa di trovare il nostro modo di mescolarci”
http://nuovitaliani.corriere.it/
Buon primo maggio a tutti!=)